La riforma del diritto di famiglia del 2018 ha sollevato polemiche e critiche da ogni parte, ma forse, per capire le motivazioni delle numerose perplessità provocate dalla riforma del ministro Pillon, è importante avere prima un quadro chiaro della situazione del diritto di famiglia nel nostro paese, con i vari aggiustamenti subiti nel corso degli anni

Storia delle riforme del diritto di famiglia

Il diritto di famiglia venne codificato per la prima volta nel 1942, e concepiva una famiglia fondata sulla subordinazione della moglie al marito, sia nei rapporti personali che in quelli patrimoniali, ma anche nelle relazioni di coppia e rispetto ai figli; si aveva inoltre la discriminazione dei figli nati fuori del matrimonio (figlio naturale) rispetto ai figli legittimi, in termini di trattamento giuridico.

Il primo libro del codice venne riformato dalla legge 19 maggio 1975, n. 151 (“Riforma del diritto di famiglia”), che apportò modifiche sostanziali, miranti innanzitutto a uniformarsi ai principi costituzionali e in cui si assistette a una decisa virata del legislatore verso la parità giuridica dei coniugi: con tale riforma si ha infatti l’abrogazione della dote, l’istituzione della comunione dei beni come regime patrimoniale della famiglia (salvo diversa convenzione) l’equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi e la sostituzione della patria potestà con quella di entrambi i genitori (prima “potestà genitoriale”, ora “responsabilità genitoriale”), soprattutto nella tutela dei figli.

Del resto, la necessità di una riforma del diritto di famiglia era evidente da molti anni, soprattutto se si tiene presente che un anno prima era stato fatto il referendum sul divorzio, e della concomitanza con le lotte per l’interruzione volontaria di gravidanza, culminata con la legge 194 del 1978.

In questo contesto, ha luogo, 9 anni più tardi, anche la ratifica di un “Nuovo concordato” (Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, L. 121/1985), in cui si riconoscono gli effetti civili del matrimonio canonico e si attribuiscono effetti civili alle sentenze di nullità ecclesiastiche. Con la legge 74/1987 si riduce invece il tempo intercorrente tra separazione e divorzio (da cinque a tre anni), inoltre si stabilisce la necessità di indicare i presupposti per la concessione dell’assegno divorzile.

Andando avanti nel tempo, e seguendo quelli che sono stati gli sviluppi di cronaca giudiziaria, con la legge n. 154/2001, modificata dalla legge n. 304/2003, si regolamentano gli atti di violenza domestica, decretando che, quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale dell’altro coniuge o convivente, il giudice può disporre l’allontanamento del soggetto dalla casa familiare, al fine di far cessare le violenze stesse, il divieto di frequentazione di luoghi determinati, l’obbligo di pagamento di un assegno periodico a favore di chi, per effetto di tali provvedimenti, non ha più a disposizione i mezzi adeguati.

Con la L. n. 54/2006 si è modificato il precedente regime in materia di affidamento esclusivo all’uno o all’altro genitore, sancendo, per effetto dell’articolo 155 c.c. (oggi 337-ter c.c.) che “il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento”.

Peraltro, sempre in materia di figli, a oggi è venuta meno la distinzione tra figlio naturale, figlio adottivo minorenne, e figlio legittimo (L. n. 219/2012 e D.Lgs. 54/2014).

Una nuova riforma del 2015 – L. n. 55,  pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale l’11 maggio 2015 – ha sancito l’ufficializzazione del “divorzio breve“, che è entrato in vigore dal 26 maggio 2015. Con tale riforma, in luogo dei tre anni prima previsti, in caso di separazione giudiziale, è sufficiente un anno per porre termine al matrimonio, a partire dal giorno della comparizione dei coniugi davanti al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale. Ma l’articolo 2 della medesima legge, aggiungendo un comma all’articolo 191 c.c., anticipa il momento dello scioglimento della comunione tra i coniugi, al momento in cui “il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati”, oppure “alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato” (per le separazioni consensuali, per cui la tempistica, secondo una variazione a una legge del 1970, diminuisce ulteriormente, da un anno a sei mesi).

Il 24 settembre 2014 la Camera ha approvato il DDL “Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli“, con cui le madri possono scegliere di attribuire anche il proprio cognome, e non più solo quello del marito, al figlio.

Importante poi ricordare il DDL Cirinnà, entrato in vigore dal 5 giugno 2016, introdotto dall’art 1, commi 1-35, della Legge 20 maggio 2016, n. 76 (cosiddetta legge Cirinnà), denominata “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, che ha garantito alle coppie omosessuali, ma anche alle coppie eterosessuali che non desiderano ricorrere al matrimonio, di essere equiparate, in quanto a diritti e doveri, alle coppie sposate: “Due persone maggiorenni dello stesso sesso possono costituire un’unione civile mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni, l’atto di costituzione dell’unione civile viene registrato nell’archivio dello stato civile. Non sono richieste dalla legge le formalità previste dal codice civile in merito alle pubblicazioni a differenza del matrimonio”.

Al momento la legge esclude la cosiddetta stepchild adoption, ovvero la possibilità per la coppia di adottare un figlio, o per uno dei due partner di diventare genitore adottante del figlio del/la compagno/a; tuttavia, la legge prevede espressamente che “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”, non impedendo così che la giurisprudenza possa applicare le nuove norme sull’adozione in casi particolari, dato che dal 2007 questa è concessa anche alle coppie non legate da vincolo matrimoniale, di conseguenza anche a coppie omosessuali. L’adozione del figlio del partner, detta anche “adozione coparentale”, viene invece applicata dalla giurisprudenza nell’interesse del minore. Ad esempio, come si legge su Wikipedia, poche settimane dopo l’entrata in vigore della legge Cirinnà, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha confermato una sentenza della Corte d’Appello di Roma accogliendo la domanda di adozione di una minore proposta dalla partner della madre, convivente in modo stabile, confermata dalla sentenza 12962/16, pubblicata il 22 giugno 2016, in quanto “non determina in astratto un conflitto di interessi tra il genitore biologico e il minore adottando, ma richiede che l’eventuale conflitto sia accertato in concreto dal giudice”.

Nel quadro del diritto di famiglia italiano si deve necessariamente parlare anche delle norme in materia di procreazione medicalmente assistita, regolate da L. n. 40/2004, secondo cui la possibilità di accedere alle tecniche di fecondazione è garantita solo alle coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi, escludendo il ricorso alla fecondazione eterologa.

Il ddl Pillon e il “ritorno al Medioevo”

L’ultima riforma del diritto di famiglia è quella proposta dal ddl 35 presentato dal senatore Pillon, attualmente ferma in Senato, che prevede ulteriori cambiamenti soprattutto sul piano dell’affido dei figli in caso di separazione.

Il disegno di legge, denominato “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità” intende, ad esempio, inserire la figura del mediatore civile obbligatoria in tutte le separazioni in cui siano coinvolti i figli minorenni, oltre che garantire l’equilibrio tra entrambe le figure genitoriali e tempi paritari nella cura e nell’educazione, con affidamento congiunto e doppio domicilio per i minori, salvo eccezioni limitate all'”indisponibilità del genitore” e all'”inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita del minore”, punti su cui, chiaramente, il decreto fa discutere, dato che lascia un’ampia discrezionalità decisionale rispetto a quello che è il concetto di indisponibilità e di inadeguatezza del luogo.

Il DDL Pillon prevede inoltre il mantenimento in forma diretta dei figli, con il venire meno del riconoscimento di un assegno da corrispondere al coniuge e l’attribuzione di specifici capitoli di spesa a ciascuno degli ex coniugi, in misura proporzionale al reddito e ai tempi di permanenza presso ciascun genitore del minore, nonché il pagamento di una somma assimilabile al canone di locazione laddove il coniuge rimanesse nella casa di proprietà dell’altro, altro punto che ha fatto sorgere più di una perplessità.

Il decreto è stato ampiamente criticato dalle Donne in Rete contro la Violenza, secondo cui la sua approvazione rappresenterebbe un “ritorno al Medioevo”.

Mentre i media riportano quotidianamente storie di femminicidi, stupri, violenze e abusi, in una sequenza cronicizzata di orrore – hanno spiegato le portavoce a Repubblica – non solo continuiamo a sentir parlare del problema come di un’emergenza sociale a dispetto dell’evidenza dei dati che dimostrano ampiamente come la violenza maschile contro le donne sia un problema strutturale e profondamente radicato nel nostro paese, ma registriamo l’avanzare indisturbato di proposte di legge che, se approvate, favorirebbero inevitabilmente il persistere della violenza, in particolare quella intrafamiliare.

Secondo i centri antiviolenza, il decreto riproporrebbe una riappropriazione del potere maschile e, nella petizione lanciata su Change.Org, si legge:

Il DDL fa pensare che chi ha redatto il testo sia completamente decontestualizzato e non tenga conto di cosa accade nei tribunali, nei territori e soprattutto tra le mura domestiche. Il testo sembra quasi completamente ignorare la pervasività e l’insistenza della violenza maschile che determina in maniera molto significativa le richieste di separazioni e genera le situazioni di maggiori tensioni nell’affidamento dei figli che diventano per i padri oggetto di contesa e strumento per continuare ad esercitare potere e controllo sulle madri.

Ignora inoltre il persistente squilibrio di potere e di accesso alle risorse, proponendo un’equiparazione tra i genitori, il doppio domicilio dei minori, l’eliminazione dell’assegno di mantenimento e dando per scontate disponibilità economiche molto spesso impossibili da garantire per le donne in un paese con elevatissimi tassi di disoccupazione femminile, dove è ancora presente il gap salariale, che continua ad espellere dal mercato del lavoro le madri, ne penalizza la carriera e garantisce sempre meno servizi in grado di conciliare le scelte genitoriali con quelle professionali, mentre scarica i crescenti tagli al welfare sulle donne schiacciate dai compiti di cura.

Il pericolo, dunque, sarebbe quello di aprire la strada alla rivalsa dei padri separati, sostenendo, affermano le responsabili dei centri, “una cultura patriarcale e fascista che, fingendo di mettere al centro la famiglia come istituto astratto e borghese, tenta di schiacciare la soggettività e la libertà delle donne ancorché dei minori“.

L’avvocato e magistrato onorario della Procura di Lucca Fabrizio Bartelloni ha commentato con Repubblica i punti più incerti del provvedimento:

La cosa migliore del c.d. Ddl Pillon, ossia il disegno di legge n. 375/2018, che vede appunto fra i primi firmatari il senatore della Lega Simone Pillon, e che si propone di riformare in modo profondo alcuni istituti del diritto di famiglia, specie con riferimento alle separazioni e all’affidamento dei minori, è che la sua entrata in vigore, almeno stando alle parole del Vice Presidente del Consiglio Luigi Di Maio, è di là da venire, visto che, afferma testualmente il leader dei 5 stelle, ‘non è nei programmi di approvazione dei prossimi mesi perché così non va’ […] l’analisi del testo proposto sembra far emergere molte ombre e assai poche luci.

In primis, spiega Bertelloni, la stessa figura della mediazione civile obbligatoria, che dilata i tempi del procedimento e rappresenta un costo ulteriore per i coniugi che intendono separarsi; senza contare poi che

[…] in quelle situazioni in cui la procedura di separazione è figlia di condizioni di forte conflittualità o addirittura di abusi e violenza di un coniuge nei confronti dell’altro, obbliga le due parti a mantenere frequenti e reiterati contatti, finalizzati alla definizione del ‘piano genitoriale’ previsto dalla nuova normativa, con il conseguente rischio di procrastinare e aggravare condizioni di disagio e di violenza, quantomeno psicologica, che finirebbero inevitabilmente per incidere anche sull’accordo fissato dal suddetto piano.

Anche il nuovo affido dei figli, che deve essere paritario, afferma Bertelloni, pur apparendo utile per temperare quelle situazioni in cui l’affido condiviso garantito dalla L. 54/2006 non si realizza, “rischia di innescare invece meccanismi di prevaricazione nei confronti del genitore socio-economicamente più debole (statisticamente le madri), specie in quelle situazioni di soggezione dovute a precedenti (e poi perduranti?) condotte vessatorie e violente che richiederebbero invece un allontanamento e un distacco fra gli ex coniugi, in primis a tutela dei figli, già provati da un clima di estrema conflittualità fra i genitori in costanza di matrimonio“.

E se è pur vero che la nuova normativa si dichiara inapplicabile al genitore che si sia macchiato di condotte violente, è la stessa normativa a prevedere che le stesse debbano essere accertate in sede giudiziale (con un evidente e insanabile scollamento fra i tempi della giustizia civile, e tanto più della mediazione obbligatoria, e quelli dell’accertamento penale), e a proporre l’introduzione di una significativa modifica all’art. 572 del codice penale, ossia la norma che punisce il reato di maltrattamenti in famiglia, prevedendo che tali condotte debbano avere il connotato della ‘sistematicità’ in luogo della ‘abitualità’ oggi prevista, ossia essere pressoché continue, restringendo in modo significativo il campo di applicazione della fattispecie.

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